Il Giudizio Universale sta arrivando. 

Tre milioni di anni fa, il mondo era irriconoscibile. I mari erano fino a 25 cm più alti, e nell’Artico crescevano foreste. Le superfici emerse avevano un aspetto molto diverso da quello che conosciamo. Eppure, qualcosa in comune con quel mondo preistorico ce l’abbiamo: abbiamo raggiunto gli stessi livelli di anidride carbonica in atmosfera.

Il sistema climatico terrestre funziona fondamentalmente così: l’energia solare raggiunge il pianeta, una parte viene immediatamente riflessa nello spazio dall’atmosfera, mentre una parte entra nel sistema terrestre. La superficie della Terra, a sua volta, assorbe una parte di questa energia e riflette il resto. Quanta ne assorbe e quanta ne riflette dipende dalla composizione della superficie stessa: una superficie chiara riflette ovviamente molta più luce di una scura! Immaginatevi una bianca distesa nevosa: agirà come uno specchio, riflettendo fino al 90% dell’energia in arrivo (proprio per questo, sulla neve ci si abbronza di più e la luce è così accecante). Una massa d’acqua scura al contrario, come i mari e gli oceani, assorbe la maggior parte dell’energia che arriva. In definitiva quindi, dell’energia solare che raggiunge il pianeta il 20% viene riflessa prima che possa entrare nel sistema climatico terrestre, un altro 20% viene assorbito dall’atmosfera, di quella che raggiunge la superficie il 50% viene assorbito e il 10% riflesso.

Anche la superficie terrestre a sua volta emette energia: nell’epoca preindustriale, il sistema climatico terrestre aveva raggiunto un equilibrio tale per cui la superficie emetteva circa la stessa quantità di energia che assorbiva. E qui, entrano in gioco i gas serra.

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I gas serra sono essenziali per la sopravvivenza umana: se non ci fossero, con il tipo di equilibrio che ha raggiunto il sistema climatico la temperatura media del pianeta sarebbe di -19°C, invece dei +14°C attuali. La funzione dei gas serra è quella di riflettere l’energia, e quindi il calore, che proviene dalla superficie (sia quella solare riflessa, sia quella emessa) impedendogli di lasciare il sistema terrestre. Contribuiscono quindi a mantenere le temperature abbastanza calde da consentire la vita umana come la conosciamo oggi.

Qual è il problema allora? Perché tutti si preoccupano così tanto dei gas serra?

La parola chiave qui è equilibrio: il delicato e complicato sistema climatico terrestre è estremamente sensibile al cambiamento di una delle sue componenti. Se le concentrazioni di gas serra in atmosfera aumentano, più calore rimane intrappolato nel nostro pianeta, squilibrando il sistema con conseguenze devastanti fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio, che potrebbe essere molto diverso da quello che conosciamo oggi, con temperature medie di molti gradi più alti rispetto a oggi.

È colpa nostra

Le concentrazioni atmosferiche di gas serra hanno raggiunto nuovi record nel 2017, con la CO2 a 405.5 ppm (+146% rispetto ai livelli preindustriali). Rispetto al 1990, la capacità dei gas serra di alterare il bilancio energetico terrestre (forzante radiativo) è aumentata del 41% [WMO Greenhouse Gas Bulletin – No. 14].

La causa sono le attività umane, e in primo luogo l’utilizzo di combustibili fossili. Nel 2010, il 35% delle emissioni globali provenivano dal settore dell’approvvigionamento energetico, il 24% dal settore dell’agricoltura, silvicoltura e altri usi della terra, il 21% dall’industria, il 14% dai trasporti e il 6.4% dagli edifici [IPCC Fifth Assessment Report]. Il 71% di tutte le emissioni industriali dal 1970 a oggi sono state causate da appena 100 industrie produttrici di combustibili fossili [CDP Carbon Majors Report 2017]. Le emissioni globali inoltre non mostrano nessun segno di voler diminuire: sono anzi ancora aumentate nel 2017 [UNEP Emissions Gap Report 2018]. Al contrario, per restare entro la soglia dei 2°C di riscaldamento globale, entro il 2030 dovremmo tagliare le emissioni del 25% rispetto al 2010 e raggiungere lo zero netto nel 2070, mentre per restare entro 1.5°C nel 2030 le emissioni dovrebbero essere del 45% più basse rispetto al 2010 ed essere pari a zero già nel 2050. Se continuiamo su questa strada, già nel 2030 potremmo raggiungere un riscaldamento globale di +1.5°C, e a fine secolo potremmo arrivare a oltre 4°C in più [IPCC Special Report: Global Warming of 1.5°C].

E l’Italia che fa contro i cambiamenti climatici? 

L’Italia è parte del cosiddetto gruppo dei Paesi sviluppati, quelli che storicamente sono i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra a livello globale. Rispetto al 1990, al 2017 le nostre emissioni si sono ridotte di appena il 17.4% [ISPRA], mentre già nel 2007 l’IPCC chiedeva che i Paesi sviluppati riducessero le emissioni del 25-40% entro il 2020 [IPCC Fourth Assessment Report]. Inoltre, parte di questa riduzione è dovuta sia alla crisi economica del 2008 e al conseguente calo della produzione, sia alla delocalizzazione di alcuni settori produttivi all’estero [ISPRA], e non a politiche climatiche efficaci.

I nostri target di riduzione per il futuro sono del tutto insufficienti rispetto a quanto la scienza ci chiede per sperare di mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia degli 1.5°C: anche la proposta di Piano Nazionale Energia e Clima presentata a fine 2018 è stata giudicata troppo poco ambiziosa [European Climate Foundation].

Le conseguenze dei cambiamenti climatici

Ma in fondo, a noi cosa importa di qualche grado in più? Cosa cambia se la temperatura media terrestre è di 14 o 16°C?

A livello globale, un riscaldamento di anche solo di 1.5°C delle temperature significa interi ecosistemi distrutti ed estinzione di massa delle specie animali e vegetali, un aumento del 100% del rischio di inondazioni, 350 milioni di persone esposte a rischio idrico e siccità, 46 milioni colpite dall’innalzamento del livello dei mari, il 9% della popolazione mondiale esposta a ondate di calore. Tutto questo porterà al collasso dei sistemi di produzione del cibo, metterà sotto alto stress le società attuali incrementando i conflitti e le migrazioni di massa di intere popolazioni.

E per l’Italia? La geografia e la topografia del nostro territorio, che costituiscono l’unicità del nostro Paese, ne determinano anche l’estrema fragilità di fronte ai cambiamenti climatici. L’area mediterranea è infatti particolarmente a rischio: si riscalda una volta e mezzo più velocemente del resto del mondo, e con un riscaldamento di 2°C globale vedrebbe la propria disponibilità di acqua, già scarsa, ridursi di ben il 17%.

Anche la zona alpina è un hotspot dei cambiamenti climatici: lo scioglimento dei ghiacci perenni porterebbe alla perdita di fondamentali riserve d’acqua che alimentano le comunità che vivono alle pendici delle montagne, l’equilibrio degli ecosistemi verrebbe fortemente compromesso e aumenterebbe il rischio idrogeologico.

Di fatto, le temperature medie italiane sono già circa un grado e mezzo più alte rispetto al periodo preindustriale, con tutte le conseguenze in termini di disponibilità d’acqua, siccità, ondate di calore, ma anche fenomeni estremi come piogge, grandinate e nevicate forti e improvvise, inondazioni, trombe d’aria.

L’innalzamento del livello dei mari globale inoltre porterà alla scomparsa di molte aree, soprattutto costiere: esempi emblematici sono Venezia, la città sull’acqua, gran parte della Pianura Padana, la Liguria e tutte le regioni che si affacciano sul mare.

Il clima nell’agenda internazionale

E la comunità internazionale cosa sta facendo? L’Accordo di Parigi non aveva risolto tutto?

In realtà, sono ormai più di trent’anni che si parla di clima nella politica internazionale. Già nel 1988, l’ONU fondava il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC) con l’obiettivo di studiare il riscaldamento globale e fornire periodicamente un rapporto, approvato da tutti i governi, sullo stato delle conoscenze scientifiche sul tema. Nella Conferenza di Rio del 1992, è stata stipulata la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change – UNFCCC), un trattato internazionale con l’obiettivo di stabilizzare le emissioni di gas serra a un livello tale da prevenire interferenze dannose delle attività umane con il sistema climatico, che ad oggi conta 197 parti aderenti.

Nell’ambito della Convenzione, gli Stati si riuniscono nelle Conferenze delle Parti (Conference of Parties – COP) che si tengono tutti gli anni. Un momento chiave nella storia dell’UNFCCC è stata la stipula dell’Accordo di Kyoto nel 1997, che tuttavia ha avuto molti limiti: dai tagli delle emissioni richiesti ai Paesi sviluppati, troppo poco ambiziosi, all’esclusione di qualsiasi obbligo di riduzione delle emissioni per Paesi altamente inquinanti come Cina o India, fino alla mancata ratifica da parte degli Stati Uniti e al ritiro di Canada, Giappone e Russia, che ha finito per compromettere qualsiasi efficacia dell’accordo. Negli anni seguenti, nonostante con la pubblicazione dei successivi rapporti dell’IPCC diventasse sempre più evidente la gravità della situazione, non si è riusciti a raggiungere un accordo tra tutti gli Stati per la riduzione delle emissioni: bisogna aspettare l’Accordo di Parigi del 2015.

L’Accordo di Parigi a oggi è stato ratificato da 185 Stati più l’Unione Europea, che insieme rappresentano oltre l’87% delle emissioni globali. Anche Cina, India e Stati Uniti, che insieme sono responsabili del 42% delle emissioni, lo hanno ratificato, nonostante Trump abbia annunciato di volerne uscire. Con l’Accordo, gli Stati si sono impegnati a mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto della soglia di +2°C rispetto al periodo preindustriale, e di sforzarsi di non superare la soglia di +1.5°C. Ogni Stato ha dichiarato il proprio contributo nazionale verso questo obiettivo (Nationally Determined Contribution – NDC), che potrà poi essere successivamente rivisto al rialzo o al ribasso. Sono stati individuati numerosi limiti dell’Accordo, ma il più grande è che, seppure tutti i NDC venissero pedissequamente implementati, porterebbero nel 2100 a un innalzamento della temperatura globale di oltre 3°C, mancando quindi del tutto l’obiettivo. Per mantenersi entro la soglia di +2°C, gli sforzi attualmente previsti dai Paesi per il 2030 andrebbero triplicati, e quintuplicati se si vuole perseguire l’obiettivo di 1.5°C [UNEP Emissions Gap Report 2018].

La giustizia climatica

Giustizia per i danni apportati al sistema climatico globale e l’eliminazione immediata delle cause dei cambiamenti climatici: queste in sostanza le richieste portate avanti dai cittadini, gruppi e associazioni per la giustizia climatica, inseparabile dalla giustizia sociale e ambientale, articolando un movimento globale per il rispetto dei diritti umani e collettivi, l’uguaglianza tra i popoli e le generazioni, e il riconoscimento delle responsabilità storiche per la distruzione climatica e ambientale. I cambiamenti climatici non sono solamente un problema ambientale, che riguarda la natura, ma soprattutto una questione politica ed etica, in quanto mettono a repentaglio il godimento di una serie di diritti, in primis quello alla vita, alla salute e al lavoro, e colpiscono tutti ma non tutti allo stesso modo.

Se l’aria che respiriamo e la terra che calpestiamo sono le stesse per tutti, non sono uguali le capacità di adattarsi e reagire ai cambiamenti climatici per tutte le persone e per tutti i popoli. Il riscaldamento globale e le sue conseguenze porteranno e stanno già portando ad impatti disastrosi nell’intero pianeta, ma alcuni Paesi ne sono maggiormente colpiti. E questi Paesi spesso corrispondono a quelli meno sviluppati, che hanno contribuito meno al raggiungimento della situazione attuale, e che sono più impreparati a farvi fronte.

E chi non è in nessun modo responsabile della distruzione del clima e dell’ambiente a cui siamo arrivati sono le generazioni future, alle quali tuttavia stiamo lasciando un pianeta molto diverso da come lo abbiamo trovato.

A partire da queste richieste, i contenziosi legali per la giustizia climatica si sono moltiplicati negli ultimi anni: cittadini e associazioni si rivolgono ai tribunali per chiedere il rispetto dei propri diritti, contestando la responsabilità delle imprese più inquinanti e l’inazione degli Stati.

In quest’ultimo campo, dopo la prima importante vittoria nel 2015 della Fondazione Urgenda contro lo Stato olandese, obbligato dalla Corte a rivedere i propri target [Climate case – Urgenda], sono aumentate esponenzialmente le azioni della società civile che mettono sotto processo i propri Stati: dalla Francia [L’affaire du siècle] all’Irlanda [Climate case Ireland], dal Belgio [Klimaatzaak] alla Svizzera [KlimaSeniorinnen], fino agli Stati Uniti [Juliana v. United States].

Cosa chiediamo

Chiediamo che lo Stato italiano riconosca la gravità della situazione in cui si trova l’Italia e agisca di conseguenza.

Chiediamo che siano riconosciute le violazioni dei diritti umani causate dagli impatti dei cambiamenti climatici.

Chiediamo che vengano adottati target di riduzione delle emissioni in linea con quanto ci chiede la scienza per mantenere il riscaldamento globale entro la soglia prudenziale di +1.5°C rispetto al periodo preindustriale.