Giudizio Universale: la Corte d’Appello di Roma rinvia la decisione alla fine del 2026.
Contro l’ordinanza i promotori annunciano la presentazione di un’istanza di anticipazione
Un ritardo che pesa sul clima e sui diritti
Con un provvedimento reso noto in questi giorni, la Corte d’Appello di Roma ha fissato al 21 ottobre 2026 l’udienza di rimessione in decisione della causa Giudizio Universale, il contenzioso climatico contro lo Stato italiano promosso dall’organizzazione A Sud insieme a più di 200 tra organizzazioni ecologiste, individui e minori rappresentanti dai loro genitori. L’iniziativa chiede di riconoscere la responsabilità dello Stato in termini di inazione climatica, e quindi l’inadeguatezza del PNIEC – Piano Nazionale Integrato Energia e Clima, a far fronte all’attuale emergenza.
La scelta dei giudici italiani colpisce rispetto all’urgenza del contesto climatico. Mentre il 2024 si è già consegnato alla storia come l’anno in cui è stata superata la soglia critica di +1.5°C di riscaldamento globale, e l’IPCC come le Parti dell’Accordo di Parigi hanno ribadito la necessità di drastiche riduzioni delle emissioni entro il 2030, la giustizia italiana si prende il lusso e la responsabilità di rimandare di un altro anno e mezzo la decisione su un tema che incide direttamente sulla vita, la salute e i diritti fondamentali delle persone.
Poco importa che l’Italia sia tra i Paesi europei con la peggiore performance climatica e tra i più esposti all’impatto del cambiamento climatico, come racconta anche l’ultimo rapporto di Germanwatch che utilizza il Climate Change Performance Index (CCPI), prendendo come parametro di riferimento gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e gli impegni che gli stati devono rispettare da qui al 2030.
Non è solo una questione di tempi processuali
Eppure, appena un anno fa, la Corte europea dei diritti umani, nella storica sentenza KlimaSeniorinnen v. Switzerland, ha riconosciuto esplicitamente che la protezione del clima deve avere un peso considerevole nel bilanciamento degli interessi da parte delle autorità pubbliche – giudici compresi. Ha inoltre ribadito che l’azione climatica deve essere immediata, con obiettivi intermedi chiari, integrati nei quadri normativi nazionali e accompagnati da misure concrete ed efficaci.
La dilatazione temporale della giustizia in questo contesto non è solo una questione di efficienza processuale, dobbiamo interpretarla come un’ indiretta violazione dei diritti umani e rischia di tradursi in un caso di denegata giustizia.
“Ogni anno perso senza azioni – e senza una decisione dei tribunali aditi – è un anno in cui aumentano i rischi di impatti irreversibili, in cui si aggrava il fardello sulle generazioni future, e si riduce lo spazio d’azione per una transizione equa e giusta. Rinviare di altri due anni una decisione così importante è una scelta che pesa, climaticamente, politicamente e giuridicamente» ha commentato Marica Di Pierri, portavoce di A Sud.
I promotori chiederanno di anticipare i tempi della sentenza
“Di fronte a questa decisione, i promotori della causa legale hanno già annunciato che intendono promuovere istanza per chiedere di velocizzare il processo e ottenere una decisione in tempi brevi, in linea con le raccomandazioni della comunità scientifica e dunque con l’urgenza di un’azione climatica efficace”, dichiara l’avvocato Luca Saltalamacchia del team legale.
I tribunali scelgono di nuovo lo stallo. La rapidità sembra essere riservata solo alle azioni repressive, lo sanno bene le attiviste e gli attivisti di Extinction Rebellion, in questi giorni impegnati in tante città italiane con la primavera rumorosa, una serie di iniziative e di azioni performative che sfidano i poteri fossili, l’industria delle armi e i venti di guerra europei. A essere identificati, schedati e bloccati dovrebbero essere i nemici del clima, e non chi ricorda ai governi di dover agire per invertire la rotta.